venerdì 26 febbraio 2016

La "Matrice" di Gibson

Avete presente la sensazione che si prova a guardare un film di azione?
Immagino di si.

Bene. Provate adesso a vederne quattro contemporaneamente: un bell'intreccio, eh?

Questo è proprio quello che fa Gibson nel suo capolavoro "Monna Lisa Cyberpunk". Quattro storie   ambientate in un futuro prossimo e decadente, dove la macchina (intesa in senso quasi degradante) fa da padrona e quattro personaggi cardine della narrazione: Kumiko -figlia di un boss mafioso-, la prostituta Mona, Angie - figlia di un ingegnere genetico- e l'ex carcerato Slick.

Ciò che li unisce è la Matrice, la pura essenza del cyberspazio, la Macchina virtuale di tutta la narrazione e alla quale è possibile accedervi per scambiare o reperire informazioni che si riveleranno vitali per i protagonisti.
A mio avviso è la quintessenza del romanzo.

Il collegamento alla Matrice è ben spiegato proprio dall'autore:

“Molto tempo prima, in Arizona, suo padre l’aveva avvertita di non collegarsi. Le aveva detto che non ne aveva bisogno. Ed era così, infatti, perché aveva sognato il ciberspazio, come se le linee fluorescenti della griglia della matrice la stessero aspettando dietro le palpebre. Non c’è luogo, là, dicevano ai bambini quando spiegavano il ciberspazio [...]
Angie si piegò in avanti e prese la serie di elettrodi simstim, scrollandoli per liberare i cavi dall’intrico. Nessun luogo, laggiù.
Allargò la fascetta elastica e adattò gli elettrodi ai lati delle tempie; era uno dei gesti più comuni del mondo, ma lei lo faceva di rado. Premette il pulsante di controllo della batteria dell’OnoSendai. Comparve un segnale verde. Poteva iniziare. 
Premette l’interruttore, e la stanza sparì dietro un muro incolore di statica sensoriale. Nel cervello fluì un torrente di rumore bianco.
Premette un secondo pulsante, a caso, e venne catapultata oltre il muro statico, in un vasto spazio informe, il vuoto irreale del ciberspazio. Intorno a lei, le linee luminose della griglia della matrice formavano come una gabbia infinita.


“«Adesso ti faccio vedere.» Quando tornò al tavolino bianco della colazione portava un basso vassoio nero e quadrato con alcuni piccoli comandi allineati su un lato. L’appoggiò sul tavolo e toccò uno dei piccoli interruttori. Un oloschermo cubico apparve sopra il proiettore: erano le linee fluorescenti della griglia del ciberspazio allineate con le forme luminose, allo stesso tempo semplici e complesse, che rappresentavano vasti accumuli di dati memorizzati. «Quelli sono tutti i pezzi grossi standard. Le corporazioni. Un paesaggio stabile, si direbbe. Ogni tanto una di loro sviluppa un annesso, oppure si assiste a un rilevamento, e due si fondono insieme. Ma è improbabile vederne una completamente nuova, almeno su questa scala. All’inizio sono piccole, poi crescono, si fondono con altre piccole formazioni…» Si allungò e toccò un altro comando. «Circa quattro ore fa» e una liscia colonna bianca verticale apparve al centro esatto dello schermo «è apparsa questa. O ci è entrata.» I cubi le sfere, le piramidi colorate si erano immediatamente riposizionate in modo da lasciare spazio al cilindro bianco, le rimpiccioliva completamente: la sua estremità superiore era tagliata fuori dal limite superiore dello schermo. «Quel bastardo è il più grosso di tutti» disse Tick, con una certa soddisfazione «e nessuno sa che cos’è o a chi appartiene.»”


A questa Matrice viene poi associtato il mito de " Il Giorno Che Cambiò", citato in qualche piccolo intervento in cui per un attimo mi è parso di cogliere la caducità di questa realtà virtuale in contrasto con la ripetuta e riconosciuta supremazia a cui essa è ancorata:

“«Si incontra questo mito generalmente in due versioni. Secondo la prima, il ciberspazio è abitato, o forse visitato periodicamente, da entità le cui caratteristiche corrispondono alla forma mitica primaria del “popolo nascosto”. La seconda implica un assunto di onniscienza, onnipotenza e incomprensibilità della matrice stessa.»
«Che la matrice è Dio?»
«Si potrebbe dire così, anche se sarebbe più preciso, nei termini della forma mitica, dire che la matrice “ha” un Dio, poiché si suppone che l’onniscienza e l’onnipotenza di questo essere siano limitate alla matrice.»
«Se ha dei limiti, non è onnipotente.»
«Esattamente. Nota che il mito non parla d’immortalità, come succede di solito nel caso di sistemi di credenze che postulano un essere supremo, almeno nel caso della tua particolare cultura. Il ciberspazio esiste, nei limiti in cui si può dire che esiste, in virtù dell’opera umana.»” 


“«L’aleph è un’approssimazione della matrice» le spiegò. «Una specie di modello del ciberspazio.»
«Sì, questo lo so» lo interruppe lei, e si rivolse a Bobby. «Allora? Avevi promesso che mi avresti spiegato il perché del Giorno Che Cambiò.»
Finn rise, un suono strano. «Non c’è un perché, signora. C’è più che altro un cosa. Ricordi che una volta Brigitte ha detto che c’era un altro? Be’, quello è il cosa, e il cosa è anche il perché.»
«Sì, ricordo. Lei ha detto che alla fine, quando la matrice ha conosciuto se stessa, c’è stato “l’altro”.»
«E’ là che stiamo andando» disse Bobby, mettendole un braccio intorno alle spalle. «Non è lontano, ma è…»
«Diverso» disse Finn. «Veramente diverso.»
«Ma cos’è?»
«Vedi» iniziò Colin scostando il ciuffo dalla fronte con un gesto da scolaro dei tempi andati «quando la matrice ha raggiunto la coscienza, si è resa conto che esisteva un’altra matrice, un’altra coscienza.» «Non capisco» disse lei. «Se il ciberspazio consiste nella somma totale dei dati nel sistema umano…»
«Già» la interruppe il Finn immettendosi nella lunga superstrada deserta «ma nessuno sta dicendo che è umano…»”









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